giovedì 24 marzo 2011

Polilitio

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Rosetum, venerdì 18 dicembre 2006


Gennaro di Jacovo


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Polilitio


Xanta di Dream room

Argos&Ruphus Editori


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... Sulla montagna e fra le morge era salita lentamente una nebbia grigia e umida che nascondeva le case e rendeva il paese biancastro e vago nella luce del crepuscolo.

Si sentiva in lontananza un cane che abbaiava.

Era Max il grosso cane di Don Michele che chiamava il suo padrone, il parroco di Polilitio, o Rosa, sua madre, piccola e minuta ma dotata d’una volontà forte e d’un carattere di ferro.

Fra poco sarebbe stata ora di cena.

Sopra le fornacelle Mamma Berenice aveva messo da tempo ... foglia di cavolo nero ben lessate a rosolarsi con l’olio, l’aglio ed il sale.

A parte aveva cotto una tonda focaccia di grandigno, il mais delle campagne del paese, e fra poco avrebbe sframmicato la 'pizzagrandign' calda e croccante nella verdura, mischiando le patate per preparare la mbaniccia, il piatto tipico della zona.

Un piatto di mbaniccia, o ... 'fogliapataneppizza', oppure occasionalmente na tjella d skatton prima della tradizionale pasta aglio e oglio, al sugo, o assluta, ossia senza condimento, era un toccasana per quelle umide giornate di nebbia e di pioggia sottile.

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Nella bottega paterna Rocco guardava la pioggerella scendere fitta e si sentiva struggere.

Non poteva restare lì con quella gente in un paese piovoso e nebbioso, k unc misc d fridd e un d frisk, con undici mesi di freddo e uno di fresco, come aveva osservato una volta uno di Napoli, a lavorare in una bottega d’orafo, col padre e la madre ormai vecchi, quando c’erano tante cose da vedere, da assaggiare, da conoscere.

Il fratello era già andato via, prima per vivere la sua vita di universitario, poi impegnato dalla guerra e infine a Roma, con la sua attività di avvocato, la sua famiglia nella villa dei Parioli.

Le sorelle erano in America.

Nessuno della sua famiglia aveva potuto vivere in quella terra, come per effetto di una volontà di avvicinamento ad altri contesti, come per una fatale dispersione.

Qualcosa spingeva lontano la nave dei progetti dei figli di quella grande famiglia, ma questo accadeva solo da una generazione.

Rocco salì in cucina per la scaletta di legno che dava nel corridoio.

Attizzò il fuoco, poi assaggiò la verdura e si complimentò con la mamma.

Quando arrivò suo padre, si accomodarono a tavola.

‘Papà, disse Rocco, devo andar via da questo paese.
Qui per me c’è poco da fare ...’

‘Ma come ... ci sono le Terre, il bosco e l’oreficeria ...
Possiamo lavorare insieme e tu puoi costruirti una famiglia, qui, a Polilitio ...’

‘No, papà ... andrò a Roma. Mi basterà avere da te il denaro necessario per avviare l’attività.
La stessa cosa mi sembra hai fatto per le mie due sorelle partite per l’America.

Una volta avviata l’attività, vedrai che tornerò a trovarti.
Andrò a Roma, da mio fratello.
Abiterò a casa sua.
Vedrai che tutto andrà bene ...’

‘E ci lascerai soli, qui in paese.
Di tanti figli, non resterà nessuno qui con me ...’

‘Vi resterà Ines. Lei non se ne andrà.
Presto anzi potrà sposarsi con Antonino.
Si sono conosciuti da poco.
Credo proprio di essere stato io a presentarli.
Nasceranno dei figli e vedrete che non sarete soli’.

‘E quando te ne andrai, Rocco?’

Resterò qui per una settimana, poi andrò a Roma’.

In quel momento entrò Ines e prese posto a tavola.

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Non sapeva che il suo fratello prediletto si stava occupando e preoccupando per il suo futuro.
Per ora soltando sottoponendo il padre ad un serio, ennesimo impegno economico per provvedere alla partenza del figlio più giovane.

Terminato il pranzo ognuno tornò alle ordinarie occupazioni.

Ormai la notte era scesa sul piccolo paese pieno di sassi, di rocce, tanto che avresti detto che anche la carne, le ossa e l’anima, se ne hanno gli umani, erano di sasso.

Alla domanda ‘come stai?’, si usava spesso rispondere ‘come n’ zzass ...’.
Come un sasso, per dire: benone.

Gente speciale, quella di Polilitio.
Austera, arcigna e rude.


Silenziosa e testarda, poco incline all’ attività della lingua e più a quella della memoria, poco amante della polemica e del cicaleccio del pettegolezzo, che gli psichiatri oggi, non sapendo più cosa consigliare e quasi dove sbattere la testa, rivalutano.


Era scarso il pane e ancora di più il companatico in quelle terre, ma a casa di Rocco certo non mancava nulla.

Eppure, la mamma ed il babbo erano generosi con tutti, non si comportavano come tangheri o come spilorci.


Erano generosi, e nessuno usciva più povero dalla loro casa nel cuore del paese antico.

Le terre erano concesse ai parzonauoli, ai fittavoli, senza balzelli esosi, anzi, si concedeva loro gran parte del raccolto, come se coltivando le terre dei Colli alleviassero le preoccupazioni dei prorpietari e solo per questo meritassero un qualche premio speciale.

In paese le case erano ammassate lungo stradette strette e in salita, con una stalla, sotto la cucina, ove dimoravano somaro e maiale.
Gli animali vivevano in simbiosi con l’uomo e si sacrificavano con lui e per lui.
Il somaro quotidianamente, lavorando e trasportando pesi e legna, frumento e gerle, sacchi ed otri, il maiale compiva un solo sacrificio, immolandosi e facendosi uccidere per fornire alimento per molti mesi.

Al piano terreno della casa di Rocco, figlio di Berenice e Donatello, non c’erano maiali e somari.
C’era una cantina dalla volta a botte, che serviva da ripostiglio e legnaia, con un pozzo per il drenaggio delle acque sotterranee.

E c’era un laboratorio per le attività orafe, la bottega e la banca.


L’inverno passava lento e gelido fra quelle montagne del Matese, con il rotondo monte Caraceno ed il suo piccolo gemello, il Collavalle.


Le nevicate più intense arrivavano a Gennaio, ma poteva succedere anche prima.


Il vento freddo del nord cominciava a soffiare a Ottobre, se non prima, e spazzava le vie sollevando polvere.
La neve cadeva all’inizio dell’anno ed il vento la plasmava senza darle tregua, come nel deserto il Ghibli con le dune.
Si creavano refole nei posti più imprevedibili, chiudendo le porte e le finestre a pianterreno.

In altri punti non c’era neve, ma un pulviscolo ghiacciato che si muoveva col vento su un terreno rigido, secco, gelato.

***
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Gennaio era il mese della socializzazione.

Le famiglie scannavano il maiale ed era tutto un invito a cena, con piatti grassi e saporiti a base di carne.

Un gruppo di uomini nerboruti afferrava l’animale vittima dell’appetito dell’uomo e lo coricava su una grossa graticola.

L’esperto dello sgozzamento provvedeva a forare la gola del maiale, che urlava dispetatamente e si dibatteva forsennatamente, fino a quando non si fermava, privo del sangue che nel frattempo una buona donna aveva raccolto in una conca di rame.

Questo sarebbe poi servito per il sanguinaccio, una spècie di cioccolata dolce più o meno aromatizzata a seconda dei gusti con uvetta, chiodi di garofano.

Il maiale, che cristianamente così dava la vita per i suoi amici dal volto umano dimostrando chi è davvero capace dell’amore più grande, in poco tempo era aperto, sezionato, diviso in numerose parti funzionalmente affini.

Addirittura già di facevano le prime salcicce, a lunghe volute, da appendere a volute alle pertiche.

Erano le chiecate, le piegate.

Il guanciale, tenero e assai ricco di grasso, veniva cotto lentamente in un paiolo, dopo essere stato tagliato a cubi.

Veniva poi consumato con molti sottaceti, per antipasto, mentra il grasso gelava nei piatti nella case fredde ma riscaldate dalle calorie abbondanti, dal vino aspro di quei sanniti pentri e dal buonumore.

Tutto questo durava anche l’intero inverno, fino a febbraio, ma certamente si adoperavano per queste cene solamente le parti meno facilmente conservabili del buon animale.

Il resto doveva servire tutto l’anno.
La sugna, con le particelle di salsiccia, la ventresca, prosciutti e spalla, le chiecate delle salsicce e il lardo.

Così, se è vero quel che dice un saggio filosofo, che l’uomo è ciò che mangia, e se il disprezzo che spesso gli uomini hanno per i veri amici è solo una panosa maschera capace di coprire viltà e debolezza, l’amico maiale passava la vita abitando prima nella parte inferiore delle case, scaldandola, poi passava a quella superiore, fino a diventare carne della carne del suo così possessivo ospite, donandogli vita e nutrimento essenziali.

Si può mangiare tranquillamente un amico così grande senza disprezzarlo un po’, senza deriderlo e canzorarlo ogni giorno, senza inchiodarlo ad una grata e sacrificarlo, pur fra le sue giuste proteste, perché la vita è bella, anche in una stalla, con un somaro e gli avanzi per cena?

Il disprezzo e la derisione permettono all’uomo di distruggere, di uccidere senza provare senso di colpa.
Il senso di colpa logora, produce patologie psicosomatiche e rende la vita tediosa o addirittura insopportabile.

Sapere invece che un individuo è fuori dagli schemi, in qualche modo ‘strano’, anche se abita con noi, anche se è fondamentalmente innocuo, utile, aiuta l’uomo ad eliminarlo e persino a cibarsene.

Salvo poi a sostituirlo per ripetere il rito ipocrita e tragico.



La storia del maiale, e fondamentalmente d’ogni amico dell’uomo, è quella dell’eroe tragico nel dramma del teatro greco classico.

E’ quella dell’eroe tipico dell’antico e recente mito, vittima dell’inganno e della perfidia di qualche parente dei genitori più che della colpa dei genitori, veri ‘parentes’.



Nessuno fra gli studiosi della psiche, che si sono accaniti sulla figura della mater e del pater, ha considerato cosa mai combinano i parenti prossimi di questi nelle vicende tragiche.


***

Poi, alla fine di Febbraio, passato carnevale con le torme di ragazzi mascherati con vestiti smessi che giravano per le case cercando cibo e dolci o frutta secca, si entrava con Marzo nel periodo precedente la primavera.

Nelle dispense restavano un po’ di grappoli di uva messa a conservarsi appesa alle pertiche, mele, noci e fichi.

L’inverno aveva indotto a consumare molte delle provviste vegetali.


L’amico maiale ancora era in buona parte appeso al soffitto, più secco e dimagrito, ma saporito più che mai.

Su, nel belvedere, dove si vedeva quasi tutta la regione, dalla parte montana fino a Campobasso, il sole cominciava ad essere caldo fin nella tarda mattinata e nel pomeriggio era possibile sostarvi gradevolmente.

In quelle giornate Rocco si incontrava con i suo amici del paese.

Avevano progettato di far preparare un terreno adatto, perché pianeggiante e protetto dal costone del monte, per farvi impiantare un campo da tennis.


Il posto era vicino alla stazione del trenino che collegava Polilitio a Lupone.

Le sue racchette erano d’ottima fattura, di legno chiaro con le corde d’agnello.


***


Un altro animale che si sacrificava per le umane attività questa volta ludiche.


A Maggio il campo sarebbe stato pronto.


Nel frattempo erano vivaci le attività che i giovani intraprendevano per vincere la noia della vita di paese.



Il teatro era la risorsa più considerevole, poi c’era lo sport.

C’era un gruppo di giovani che si dedicava alla costruzione di grossi modelli di aerei, con elica a molla, capaci di volare dalla località delle Croci fino al Collavalle.


Era la zona usata d’inverno per le sciate con sci di legno e attacchi arrangiati spesso con mezzi improvvisati, ma non privi d’una qualche geniale soluzione.




Tra questi giovani ce n’era uno particolarmente entusiasta ed attivo, lo avevano soprannominato l’Uomo, perché lui stesso si era scherzosamente definito così in una poesia.




Aveva fatto il Liceo, quello di Campobasso, e si era diplomato ottimamente.


Adesso aspettava e cercava un’occasione di lavoro.

Aveva presentato alcune domande come segretario comunale.

Più tardi avrebbe voluto laurearsi in legge.


Il suo nome era Antonino.



Il padre, Luigi, e la madre, Giovanna Battista, avevano messo al mondo numerosi figli.
Lui era il primogenito.

I fratelli e le sorelle erano assai legati a lui, che da parte sua ricambiava sinceramente tutto il loro affetto.

L’estate era particolarmente bella e calda.
Dall’alto del paese, all’ombra delle morge, si dominava l’alto Molise.

Il grano imbiondiva e ondeggiava come un mare giallo al vento.
Al fiume, l’uva cominciava a spuntare, le ciliegie scurivano, le piccole mele succose maturavano, le amarene e le cotogne con loro.
I ragazzi invadevano gli orti per coglierle.

Nessuno li scacciava.

Era come se quella frutta fosse cresciuta non solo per i proprie- tari dei terreni.
Le stesse recinzioni erano spesso assenti o molto male assortite.

I gelsi erano la preda più saporita e difficile.


Il loro frutto, rassembrato alle mbriqla, ossia alle more, macchaiava le mani, quando il frutto era scuro, e quel colore fastidioso, indice tra l’altro della mancanza compiuta, si toglieva solo accendendo degli zolfanelli fra le mani chiuse a cupola.

Per questo per cogliere quel frutto era necessario munirsi nella cucina di casa di una piccola ma adeguata quantità di fiammiferi.

Accendendo la fiammella, lo zolfo faceva impallidire il color magenta scuro, e così spariva un indizio che avrebbe procurato rimproveri ai ragazzi emuli di Agostino di Ippona, che da bambino, come lui stesso racconta nelle Confessiones, rubò in un orto delle pere, e non dei gelsi, che in mancanza dell’espediente degli zolfanelli gli avrebbero evitato il rimorso ed il conseguente pentimento rendendo manifesto il suo piccolo furto, prima che si trasformasse in
un ricordo molesto d’una piccola ma fastidiosa mancanza di autocontrollo.

Tonino era ormai fuori dall’età delle scorribande negli orti d’estate.
Aveva da poco lasciato il Mario Pagano, il collegio dove aveva frequentato il liceo classico.

Aveva ancora nella mente i racconti di Tacito, di Tito Livio, di Erodoto e di Tucidide, le favole di Esopo e Fedro, i versi di Lucrezio, Catullo e Archiloco, la battaglie degli eroi omerici e le avventure di Ulisse con Penelope, Argo, Telemaco e i Ciclopi, quando era tornato nel suo paese carissimo, un tempo popolato dai Pentri, dai Caraceni, tribù dei Sanniti, rivali delle popolazioni latine per il possesso delle pianure campane, fertili e grasse.

I Sanniti avevano dovuto cedere alla organizzazione militare, alla determinata ferocia dei Romani.
Gli abitatori della arrogante Urbe, inventori di ossimori quali
‘ … summum jus, summa injuria … ‘, imposero la loro dura pax romana.

***

Ma a conti fatti, dopo tanti secoli, di Roma restavano le rovine, mal conservate dagli eredi attuali dei romani per nulla Romani, mentre dei Sanniti restavano degli esempi radiosi per virtù e amore della propria gente, della propria terra e in definitiva d’ogni gente, d’ogni terra.

Qualche sannita restava, insomma, sulle alture di Polilitio, mentre nessun romano invece era più possibile trovare, nemmeno a Roma.

E Tonino era davvero un sannita.

Amava la sua famiglia numerosa.
Era il primogenito.

Amava anche lo sport.
Il calcio, lo sci ed il nuoto.

Quest’ultimo avrebbe soprattutto praticato in India, prigioniero degli inglesi, sulla fine della guerra fra alleati e italo tedeschi.

Sua grande passione era la bicicletta, che provvedeva a tonificare la muscolatura in qualsiasi stagione dell’anno.

Lo sci ed il nuoto erano praticabili solo in determinate stagioni dell’anno e richiedevano una serie di particolari attività preparatorie.

Le strade erano sterrate, polverose, ma nemmeno si prevedeva cosa potesse essere l’asfalto, e quindi si accettava la situazione per com’era.

Le salite erano forti, a tratti durissime.

Ma poter disporre d’una bici da corsa come quella di Girardengo o di Binda era allora il massimo.

Voleva dire riuscire ad evitare di camminare a piedi, lentissimamente, riempiendo i piedi di polvere bianca, provare in un certo modo l’emozione di moltiplicare la propria forza muovendosi con un geniale leggerissimo sistema motore fatto di due pedali, una moltiplica, una catena snodabile, privo di complicati congegni e senza consumare combustibile.


La sua bici non aveva marce, ma un solo rapporto, durissimo.

Abitava in una casa sotto il Monte Caraceno, in cima ad una breve e ripida salita.




Un giorno avrebbe lasciato quella piccola casa per una ben più grande, persino troppo, ai piedi di Corso Sannitico, quando si sarebbe sposato, in un lontano dicembre, dopo la guerra mondiale.










g ****
La nostra biblioteca





Sei sempre stato amante dei miei libri
e delle buone letture o faticose che facevo
nella casa del mare … parva sed apta tibi




sedevo per interi pomeriggi
e tu mi facevi compagnia
sdraiandoti nella piccola branda sotto lo scrittoio
come un precettore paziente:
mi vegliavi fino alle ore della notte
e qualche volta uscivamo in quelle ore buie
a contare le stelle lontane fredde e belle …



Mi manchi e dal vetro del grande corridoio
accanto alla nostra biblioteca guardo la luce fioca
della tua ultima casa
ed è come se il tuo grande Spirito fosse sempre con me
e la tua forza sostenesse il collare amaranto
che ti ho comprato l’estate passata
e che metto al mio collo ogni tanto



perché sarò il tuo cane umile e fedele
e tu sarai per sempre il mio pastore:


portami tu lontano
tirami forte ancora con la tua grande mano

sostienimi bene sopra le tue braccia
come facevo io con te
quando eri piccolissimo
e ti portavo in collo
nel paese del mare

dove per tanti anni
hanno sorriso ai nostri sogni.





Dormi adesso
mio caro pastore
e assai veloci passeranno le ore
come un tempo sorvegli
che io lavori
che io legga e che scriva

aspettando che venga il giorno
che lasciati i miei libri io ti ritrovi
sorveglia questa stanza colma di volumi


***


amico mio di sempre
mentre io leggo vedo ancora la tua culla
se tu sei qui per me non mancherò di nulla


Il cane di Don Michele era enorme, nero, possente, e data la sua stazza a volte ne combinava di cotte e di crude.

Il parroco, che quanto a mole non scherzava certo, lo chiamava Vuojra, Borea, il freddo e impetuoso vento dei mesi dell’inverno.
E l’ inverno era davvero aspro, lungo e freddo a Polilitio.
Già a settembre si avvertiva un’aria fresca, che diventava fredda a ottobre, man mano che arrivava novembre, pieno di nebbia e d’una pioggerella uggiosa.

I contadini fra settembre e ottobre svinavano, nelle vigne al fiume, presso il Verrino e il Trigno, dove i fiumi si allargavano in ampi meandri pianeggianti e ghiaiosi ed il clima era sensibilmente più mite.
Ne ricavavano un vino scuro piuttosto aspro, duro come le morge ed un bianco altrettanto deciso.

Non erano certo prodotti enologici all’altezza di certi vini toscani o piemontesi, pugliesi o siciliani, ma i produttori polilitici ne andavano orgogliosi, come se fosse vino della vite stessa dei figli di Noè.
La vendemmia spesso si trasformava in cerimonie dionisiache, con pranzi a base di maltagliati al sugo di carne di maiale, ossia fatto con le salsicce conservate nella sugna, che potevano conservarsi fino a ottobre, oppure con ventresca, sopressate e caciocavallo, pane saporitissimo dall’aspetto di grandi pagnotte da tagliare a grandi fette abbracciandolo e stringendolo bene al petto, tanto che le donne ne erano tutte infarinate, frutta fresca, fichi e uva della vigna e grande euforia.

Una euforia controllata e quasi d’ufficio, visto che tutto era finalizzato ad un lavoro di raccolta comune, pulizia dei recipienti, spremitura dell’uva e preparazione del fuoco per la cottura lenta e meticolosa del mosto.
Un errore anche leggero poteva costare caro.
Tutti quelli che hanno a che fare a qualsiasi livello con Dioniso sanno che con lui non si scende a patti ingaggiando una lotta frontale, in cui lui sarebbe decisamente vincitore.
Con Dioniso vale il motto: poco o niente.
Chi non sa dosare il poco, è bene che si fermi al niente.
Dopotutto il vino, e i suoi fratelli, sono stati inventati per chi sa conservarne troppo e usarne poco, temendone gli effetti in caso di abuso.
Non sono stati inventati invece per quelli che, riconoscendone l’intrinseca ambigua pericolosità, vogliono distruggerne grosse quantità trangugiandolo come acqua di fonte.

Il primo è un atteggiamento philantropico rivolto a se stessi, è autophilantropismo, il secondo è vero, eroico, santo philantropismo spinto fino all’autolesionismo, all’autodistruzione.

Quando poi finiva ottobre, e le sue ottobrate, con cielo sereno e raggi di sole che ancora illuminavano le giornate, arrivavano le umide giornate di novembre.

La prima neve poteva cadere già, ma in genere se ne parlava a dicembre, quando gli abitanti del paese erano pronti ed equipaggiati per poter affrontare il cuore dell’inverno.

Natale arrivava alla fine di dicembre e vedeva il paese, con le sue luci fioche e le case sovrastate dal fumo azzurro della legna di quercia, di leccio, di faggio e d’abete, coperto di neve candida e gelida, caduta e non ancora trasformata dalla borea in dune variegate, spesso addossate alle case fino a chiuderne porte e finestre.

A dicembre la neve era frolla, morbida, potevi affondare fino alla cintola, e camminarci o saltarci sopra.
I ragazzi si divertivano a fare cose del genere.
La neve attutiva i rumori, le cadute non erano necessariamente rovinose e catastrofiche, perché improvvisate e realizzate con criptata perizia, senza la malizia e la violenza degli impatti dovuti alla velocità eccessiva.

Antonino amava l’inverno, la neve, il vento, le dune di neve e le tempeste di vento e nevischio, l refr e r vldrizz.


Nelle sere invernali, quando il fuoco avvampava sotto lo stimolo dell’attizzatoio, del soffiatoio, d r scssciatùr, e i tizzoni ardenti crollavano in una tempesta rossa e bianca di fuoco, con mille scintille, chiamate vecchie, che si precipitavano su per il camino rischiando di incendiare la fuliggine, i giovani del paese, alla luce d’una lampada a petrolio o acetilene, o d’una candela, d n croggn, prendevano da un ripostiglio le stecche di legno preparate per tempo.

Erano di legno d’abete, bianco e tenero.
Ne bagnavano la punta nell’acqua perennemente calda del cotturo, r kttur, sempre a disposizione e appeso ad una catena sul fuoco vivo, senza farsi vedere perchè quell’acqua era preziosa per altri usi, magari per cuocere le taccozze, o tacconelle, takkwnèll, speciale pasta all’uovo tagliata a quadrati, da gettare uno per uno sul bollore vivo dell’acqua, o la polenta, o qualsiasi altra cosa da lessare, e poi piano, per non spezzarlo, piegavano il legno in punta, fino ad ottenere la giusta curvatura.


Così, in casa, si preparavano gli sci, con legno rimediato da un falegname generoso, e magari già piallato, rifinito poi in casa, certo non sempre da mani assolutamente esperte.

La punta non sempre risultava curvata a dovere.

Ma erano gli attacchi la parte più vulnerabile.

Spesso erano male assortiti, con filo di ferro ed altro materiale rimediato alla meglio.
Ma sulla discesa dalla strada del ponte ventotto fino al Colle a Valle, dove il pendio non era nemmeno tanto ripido, c’erano proprio tutti, i ragazzi di Polilitio.

E si sciava prima sulla neve frolla, fino a quando questa non diventava capace di reggere il peso dello sciatore, facendosi soccia, poi anche sul ghiaccio, quando dopo qualche giorno e qualche squagliata dovuta al sole la superficie della pista non ghiacciava, rendendo la velocità più sostenuta.


La risalita si faceva a piedi, procedendo di fianco o a spina di pesce.
Non esistevano assolutamente impianti di risalita, nè ve ne saranno nel futuro, quando i giovani perderanno l’abitudine di inventarsi uno sport dal cielo, dal nulla, dalla neve e dal vento.




Quando il sole tramontava, si correva a casa, a riporre sci e slitte, zlitte.

Così passava l’inverno, fra questi passatempi sani, che univano il gioco all’esercizio fisico, il divertimento sportivo al lavoro, all’industriosità della costruzione degli strumenti stessi del gioco.

Nelle case gli attrezzi, gli utensili, i pochi giocattoli, spesso costruiti dagli stessi ragazzi o dai genitori, con l’aiuti degli artigiani, erano di legno, come le slitte, gli sci, le carrozze usate nella bella stagione.

Il metallo era presente come rafforzatore di giunti, come garante della scorrevolezza delle ruote, come fibbia e contenitore.



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Ci fu però un inverno diverso da quelli abituali.

Dopo natale, che trascorse senza neve e senza il consueto freddo, venne un mese di gennaio dal cielo sereno e limpido con un sole tiepido, primaverile di giorno, tanto che il giovani del paese, smesse le slitte, lasciati gli sci negli abbaini, si riversavano nelle strade a giocare con gli espedienti poveri e ingegnosi di allora.

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Cerchi di bicicletta da far girare con un bastone, carrozze di legno fatte di scatole e pezzi di legno, fionde.

C’era poi la lippa, i quattro cantoni.


Si giocava fino a tardi, la sera, come fosse estate.

***

Era una stagione assolutamente fuori della norma, un tempo sereno e mite che precedeva un’epoca fosca e drammatica, che stava per sopraggiungere in seguito ad un periodo di quasi militaresco letargo e che seguiva la grande guerra.




Una primavera irreale e fuori dal tempo permetteva intanto ai ragazzi di Polilitio di divertirsi con i loro giochi ingenui nelle campagne silenziose e illuminate a tratti da una luna bianca e muta, cheta come gli animali, dormienti nei loro giacigli e nelle loro tane, in quelle tiepide e inconsuete notti di gennaio.



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Quando avevano limite i giochi, dormivano i giovani dentro le case sicure, con i parenti sereni, prima incuriositi da quell’evento dato da una primavera caduta nel cuore dell’inverno.

Dormivano le montagne e i colli, gli abeti e i pini, le querce e gli olmi, i cerri e gli arbusti.

Dormivano placidi gli animali nelle loro tane, nelle stalle, raggomitolati e caldi nelle loro pellicce sapienti nate per conservare il tesoro del calore.

Sognavano, sognavano, sognavano.

Sognavano i giovani la felicità e l’amore, una vita luminosa, non il successo e neppura la ricchezza, ma l’abbondanza dei mezzi, la capacità di risoluzione d’ogni avversità e problema.

Sognavano le ragazze la sicurezza e la tranquillità d’una vita senza dolore, d’una vita piena di gente felice, di feste, così rare a quei tempi di rigore, di povertà, di privazione.

Ma quelli erano anche tempi di sincerità e di lealtà, d’una felicità acquistata con il sacrificio e la rassegnazione, che non era resa, ma rinuncia e sopportazione in attesa dell’arrivo della soddisfazione dei desideri.

Sognavano gli animali una vita meno piena di paura, un avvenire più soddisfacente.
Ogni giorno per loro era come l’ultimo.
Non avevano garanzie, ma la speranza e la coscienza dell’appartenenza alla vita complessiva, che possedevano in pieno, dava loro la forza necessaria per vivere, per difendersi, per procurarsi il sostentamento.

Sognavano tutte le cose e tutte le case, gli alberi e i monti, la terra, l’erba e le piante tutte, il cielo e la luna, gli oggetti cari delle case.
La tina col maniero, la catena del fuoco e il cotturo, le sedie e la tavola della cucina, la legna da ardere, i vestiti.
Sognavano la gente che sentivano vicina di giorno, le loro voci, gli umori e gli odori, sognavano tante cose, anche l’amore e il benessere e speravano di realizzare i loro desideri.

Nella grande casa di Rocco dormivano le stanze già quasi tutte vuote.
Marta e Clio erano in America, con i mariti.
Il fratello maggiore, Giacomo, era andato a Roma.
Rocco si preparava ad andarsene.
Era ormai questione di giorni.

***

Un pomeriggio di qualche tempo prima, durante un novembre piovoso, Rocco si era soffermato accanto alla finestra della bottega.

Il vano serviva da negozio di oreficeria e da banca.

Era di dimensioni non grandi, con mobili confortevoli e funzionali in legno, con una scala sempre di legno che si inerpicava fino a raggiungere, attraverso un pertugio alquanto stratto, il piano superiore della grande casa.

Rocco guardava la strada grigia, umida, il selciato di grossi sassi tondeggianti umido d’acqua piovana, la casa di fronte come un muro di tristezza scalcinata e si sentiva invadere da un vuoto sentimento che era in effetti un’ assenza di sentimenti, a dire il vero.


Eppure era un sentimento di assenza e di morte, di tristezza e di squallore.
Era come se il suo paese, il caro Polilitio, non potesse più fornirgli sentimenti, sensazioni gradevoli, sorrisi e divertimenti, ma solo preoccupazioni e tedio, tedio senza scampo.

Quel giorno Rocco provò quasi una sensazione di terrore, come se fosse circondato dalle mura alte d’un carcere da cui assolutamente dovesse evadere.
Fu allora che decise di andarsene, di lasciare i padre e la madre per raggiungere Giacomo nella capitale.
Frattanto il tempo galoppava, pur nelle difficoltà della vita sembrava che corresse forsennatamente.


Max, Il grande cane nero di don Michele pareva diventare più grande e più forte ogni anno che passava.

Ettore e Leandro, i nipoti dell’arciprete, ne erano come i custodi.


Ettore, il fratello maggiore, era stato alpino durante la Grande Guerra ed aveva imparato nel Veneto ad amare le grandi montagne delle Alpi.

Avevavo un altro fratello, Angelo, che studiava legge a Napoli, era una specie di genio e frequentava il salotto di Benedetto Croce il mercoledì.
In quel giorno si riunivano nella casa del filosofo liberale i giovani più promettenti della cultura partenopea, per discutere e parlare delle loro idee, dei loro progetti letterari e intellettuali.

Fra questi, Angelo.
Il fratello Leandro studiava medicina sempre a Napoli, con risultati eccellenti.

Il salto da Polilitio a Napoli era notevole.
Il piccolo paese molisano era silenzioso, quasi sonnacchioso, immerso in autunno e d’inverno in una nebbiolina azzurrognola provocata dalla legna che bruciava nei camini.

La città campana invece brulicava di rumori, di voci e di una variopinta vita che pareva non dovere esaurirsi mai.

Il carattere dei napoletani, poi, vitale e chiassoso aumentava la vitalità quasi esasperata della metropoli.

Le strade strette piene di botteghe d’ogni genere, lastricate di grossi blocchi sbozzati dagli scalpellini, piene di gente vociante, favorivano lo scambio di sguardi, parole, impressioni, insomma il contatto comunicativo fra i passanti.

Un pomeriggio di febbraio giunse un cablogramma all’ufficio postale di Polilitio.
Angelo si era ammalato gravemente pochi giorni prima, era rapidamente peggiorato ed infine era morto.

Giorni dopo giunse a don Michele un biglietto di condoglianze del senatore del regno Benedetto Croce.

La perdita di Angelo, giovanissimo, fu un colpo assai forte per la famiglia.

La mamma, Rosa, ne fu assai colpita e conservò per sempre il ricordo del dolore immenso di quei giorni.

Max a volte sembrava aspettarlo, accanto al camino, dove Angelo sedeva dopo pranzo.


Si accucciava accanto alla sua poltrona preferita, quella di cuoio con lo schienale alto.


E quando si apriva il portone, correva verso il guinzaglio appeso all’uscio e si agitava tutto, sperando in una camminata bella e lunga come le passeggiate con Angelo.


** Ma Angelo non ritornò più, e l’ultima volta che era stato a Polilitio aveva lasciato la sua giacca di velluto grosso sopra lo schienale della poltrona di pelle e don Michele la lasciò lì, per un tempo lunghissimo che pareva non finire mai, mentre dalla finestra il mandorlo e il gelso cambiavano foglie e colore.

Veniva primavera e l’aria s’addolciva, era più chiaro il cielo, al tramonto le rondini garrivano e schiamazzavano correndo a frotte intorno alla grande casa delle fonticelle, il rione sito a scirocco.

Ma il suo Angelo non ritornava.

Veniva autunno e si vendemmiava nelle giornate brumose piene di nebbia e nelle orrobrate luminose e terse.

Veniva inverno e i ragazzi giocavano col gelo.

Tornava estate e Angelo non ritornò.

Non ritornò più e i fratelli non lo aspettarono.
Nemmeno più lo aspettò don Michele, che tolse la giacca dalla poltrona e la diede a Guido.

“Portala tu, mettila quando hai freddo.
Era del mio Angelo.
Ma ormai non serve più a lui.
E’ rimasto a Napoli ... al mare non è mai freddo ...
Gli angeli sono con Dio ... e non hanno bisogno di vestiti
pesanti ...”.

Guido ringraziò, piegò la giacca con cura e la portò a casa.
La sistemò nell’armadio di legno pesante nella camera da letto, facendosi il segno della croce.

Nessuno ormai lo aspettava, il giovane Angelo, che studiana a Napoli e frequentava un filosofo abruzzese.

Ma quando si apriva il portone, Max correva verso il guinzaglio, agitandosi tutto, perché sapeva che un giorno da Napoli, la bella città del mare, sarebbe tornato il suo padrone, portando una ventata di aria fresca mentre la porta si richiudeva alle sue spalle e sarebbe andato verso la poltrona a prendere la sua giacca di velluto pesante a coste, con tante tasche.

Perché da qualche mese anche al mare faceva tanto freddo.
E poi lo avrebbe festeggiato, subendone l’irruente affetto.

Sarebbero usciti, poi, per passeggiare fra gli alberi e le case, fino al teatro sannita, dove recitavano i tragici certi antichi attori coturnati.

E mentre Medea avrebbe pianto la triste fine del suo amore per Giasone, avrebbe appoggiato piano la sua grande testa sulle gambe di Angelo e si sarebbe addormentato come fanno i cani, con un occhio solo.


Solo Max sapeva aspettare, con fiducia, sicuro che sarebbe ritornato a sentire Sofocle con il suo Edipo al teatro, con il suo caro Angelo.



**

Quando venne l’estate la campagna fatta di monti in declivio e di colli tondeggianti di Polilitio divenne verde per l’erba nuova e i grano, la lupinella e i fieno.
Gli alberi ripresero elegantemente il vigore delle foglie brillanti e ondeggianti al vento e al sole.
Tutto intorno era festa di vita e di enegica forza naturale.

Rocco e il fratello maggiore, Giacomo, erano tornati da Roma.
Nella cucina della grande casa c’era una chiara luce, il sole dall’alto rischiarava l’ambiente.
Rocco scendeva dalla stanza sua, posta nei piani superiori, sotto il belvedere, e si faceva la barba accanto alla finestra con il gradino alto.

La stanza di Rocco era confortevole e ariosa, con due comodi letti ed un armadio di legno incassato nel muro.

Nell’armadio c’erano i suoi vestiti usuali, quelli che metteva in paese, e gli attrezzi sportivi.
Racchette da tennis, soprattutto, ed altri oggetti.

Tutto era come se dovesse restare lì o ritornare da un giorno all’altro, anche se non sarebbe mai ritornato se non per qualche giorno appena di tanto in tanto, d’estate o a Natale.

Vederlo mentre si sbarbava, sorridente e pieno di buon’umore era una festa.

Riconciliava con la vita.















d Le verità bisbigliate.

Antonino studiava a Campobasso, città a misura d’uomo, nei pressi di Boiano, nel collegio nazionale Mario Pagano.

In collegio la vita era regolata da un orario giornaliero sempre uguale.
La domenica mattina invece di entrare in aula per assistere alle lezioni si restava a svolgere i compiti nello studio.

E questa era l’unica variazione.

Le giornate si avvicendavano lente, fra versioni di latino, greco ed esercizi di matematica, i quaderni si riempivano di lunghe colonne di analisi grammaticale e logica, riassunti, temi e traduzioni.

I convittori si ritrovavano tutti insieme almeno tre volte al giorno.

A colazione, a pranzo e a cena nella grande sala del refettorio, seduti in diverse decine di grandi tavolate, divisi per squadre, i ragazzi pranzavano e parlavano per almeno un’ora e mezzo al giorno.

Per il resto si stava in silenzio a studiare, di notte si dormiva dalle nove di sera alle sei e mezzo di mattina.

Un giorno a pranzo il vicerettore volle chiedere, chissà per quale ragione, quali fossero le città spagnole che si erano alleate con Annibale contro i Romani, durante le guerre puniche.

Tutti tacevano, nella grande sala, quando si sentì una voce squillante gridare: ... Sagunto e Cartagena ...

Era esatto, ma Antonino fu ammonito, rimproverato per aver gridato la risposta, per aver parlato a voce troppo alta.

In un paese che si preparava alle urlate totalitarie, ai programmi roboanti d’una destra erede dei sogni massimalisti ed estremisti della parte antagonista, si rimproverava un giovane che aveva dato la risposta giusta con la ‘voce sbagliata’.

E così per tutta la vita quel giovane seriamente preparato e studioso avrebbe ricordato la città di Sagunto e l’altra, Cartagena, dal nome affine a quella della patria di Annibale.

L’anno scolastico era già finito, e si era concluso con gli esami di maturità, brillantemente superati, e Antonino era rimasto solo nella sua cameretta, in attesa di lasciare il convitto.

Aveva scritto sopra il davanzale il suo nome, inciso sulla pietra bianca.

Sarebbe rimasto lì per molti anni, quel nome inciso sulla pietra, insieme a molti altri, compreso quello di suo figlio che molti anni più tardi doveva essere ospite di quel collegio e si sarebbe affacciato alla stessa finestra, per vedere la stessa strada alberata che portava ad una scuola che poi si sarebbe chiamata liceo scientifico.

Nel collegio c’era il liceo classico, e chi lo sceglieva non usciva praticamente mai dal fabbricato, se non per qualche passeggiata organizzata dalla direzione, sotto la guida degli istitutori, giovani universitari che sorvegliavano i convittori durante le ore dello studio pomeridiano, della notte, del pranzo e della ricreazione.

Sempre, tranne durante le ore di lezione a scuola.

***

Il figlio di Antonino sarebbe nato più tardi, molto più tardi, dopo decenni di cambiamenti politici rivoluzionari, dopo l’affermazione socialista in Italia, la risposta fascista, la rivoluzione russa e la grande guerra.

E tante, ma tante altre cose.

Antonino per ora scriveva il suo nome sul davanzale della finestra del convitto nazionale Mario Pagàno, nella città più importante del Molise, e pensava che un’altra volta avrebbe dato la risposta esatta, anche a costo di alzare troppo la voce.

Una volta dati gli esami di stato, si ritrovò a Polilitio, dopo otto anni di collegio, pronto a ricollegarsi con la realtà sociale del suo piccolo ma complesso paese.

Avrebbe voluto studiare legge, diritto, ma sembrava più opportuno incominciare a lavorare, trovarsi un posto nella pubblica amministrazione.

Scelse di provare nelle amministrazioni comunali, ma dopo qualche tempo di inizio fruttuoso e positivo, le svolte politiche di Roma cominciarono a farsi sentire.

***
C’era aria di guerra da un bel pezzo.
Guerra coloniale già per tutto il primissimo novecento.
E si preparava la continuazione della grande guerra, con gli stessi protagonisti, rinnovato il frasario e il complesso delle ideologie e degli intenti, ma con gli stessi obiettivi imperialistici ed egemonici di allora.

Così Antonino dovette partire per la scuola allievi ufficiali, nel settentrione, e prepararsi a dare ordini ad un plotone di giovani soldati italiani nell’Africa, in Libia, in Eritrea ed in Somalia.

Prima di partire il padre, Luigi, lo abbracciò forte, senza dire niente.
Giovanna, la madre, gli raccomandò di non esporsi troppo al pericolo, di avere riguardo per sé ed anche per gli altri.

“Ritorna a me, figlio mio ...”

Antonino era il maggiore di sei tra fratelli e sorelle, e sarebbe stato meglio se quella guerra non ci fosse stata, ma ormai le nazioni egemoni erano tristemente orientate a risolvere ogni questione di coesistenza con la forza piuttosto che con i pacifici metodi politici, economici e commerciali.

In Africa nelle trincee scavate nella sabbia del deserto i soldato stavano per ore in completa inattività.
La noia era mortale.
Si passava il tempo parlando, senza avere notizie d’alcun genere.
Pochi erano i fogli stampati ed i libri erano introvabili.

Qualcuno rileggeva continuamente certe stampe sgualcite, rileggeva le lettere dei cari, guardava le loro fotografie con le espressioni a volte sorridenti a volte serie.

Il cielo era sempre sereno, il caldo secco e ardente, le dune gialle cambiavano di posizione come le onde secche d’un mare lento ma mobile e sempre diseguale.

Di notte il freddo era glaciale, si correva il rischio di rimanere davvero congelati, sebbene non si trattasse del freddo della neve e del ghiaccio, ma d’un freddo irreale, eppure micidiale, dovuto alla fuga improvvisa del sole e del suo effetto luminoso e torrido.

Poi vennero le sconfitte di Rommel, gli inglesi passarono alla controffensiva, gli italiani, fragili alleati, dovettero arrendersi e quella guerra d’Africa volse al tramonto.
Ma non finì il calvario dei soldati, che vennero portati in India ed in altre zone controllate dall’impero britannico, come prigionieri di guerra.

Dopo una lunga e faticosa traversata lungo l’oceano indiano, Antonino giunse nell’India settentrionale, proprio sotto le alte e innevate montagne dell’Himalaja, il tetto del mondo.

Il campo era grande, formato di baracche di legno e circondato da filo spinato.
Era ben sorvegliato e fuggire era impossibile.
La distanza enorme dall’Europa, poi, francamente scoraggiava qualsiasi voglia di allontanarsi.

Gli inglesi poi non erano, in guerra almeno, molto più affabili dei nazisti, e le punizioni per i tentativi di fuga erano durissime, quando non si restava colpiti a morte sul fatto.

Cosa fare, nei lunghi mesi della prigionia?

Per prima cosa, Antonino smise di fumare.
Gli sembrava troppo umiliante cercare continuamente cicche e sigarette, quasi mendicarle, raccattare addirittura come vedeva fare le cicche spente per terra.

Così abbandonò questo vizio.

Poi cominciò a procurarsi dei libri e dei quaderni.
Libri di inglese, grammatiche e libri di esercizi.
Studiava la lingua dei suoi ... nemici, e se ne appassionava, fino a innamorarsi della pronuncia, delle parole che memorizzava facilmente.

Gli inglesi avevano creato una selezione di almeno settecento vocaboli essenziali, conoscendo i quali si poteva praticamente possedere la base per la conoscenza e la comprensione di quella lingua che stava diventando universalmente conosciuta.

Certo, partendo da quella conoscenza minima e trovandosi in un contesto linguisticamente vivo, quel patrimonio poteva essere continuamente arricchito.

Dopo l’inglese si interessò al russo, all’indiano.

Annotava le parole nei quaderni che si procurava con una grafia nitida, chiarissima, comprensibile e bene impostata.

In questo modo passarono vari anni, sotto l’Himalaja.

In primavera e d’estate i prigionieri abili nel nuoto presero a sbarrare con grossi sassi e terra il fiume che passava presso il campo, creando uno sbarramento che rassomigliasse ad una piscina.

Qui i giovani nuotavano e imparavano il tipo britannico di nuoto: il crawl.

Occorreva battere tre volte le gambe, non del tutto tese, ogni bracciata destra e sinistra e respirare inclinando la testa, che andava mantenuta sottacqua, quando il braccio sinistro girava lungo il fianco ed il destro affondava avanti nell’acqua.

Era il ritmo del valzer, del dattilo antico, il metro dell’odissea, dell’iliade, d’Eneide.

Il nuoto così assumeva solennità di metro letterario, cadenza di esametro dattilico.
Il nucleo metrico minimo si poteva anche variare, portando a quattro le battute dei piedi, ma ne perdeva tutta l’eleganza dell’insieme.

Così trascorreva il tempo Antonino, aspettando il giorno del ritorno al suo paese molisano.


***


Quella terra così lontana, la terra degli elefanti addomesticabili e di Siddharta, piena di terra e di polvere gialla più che di rocce bianche, sarebbe rimasta per sempre nella sua mente e nel suo cuore, come l’Africa e le dune del deserto.


I giorni trascorrevano lenti, dall’ora della sveglia, all’alba, fino al tramonto.
All’orizzonte si vedevano le grandi montagne dell’Himalaja, innevate e biancastre, spesso sovrastate dalle nuvole portate dai monsoni verso l’entroterra, in Cina.

Durante le stagioni più calde gli inglesi acconsentivano che gli italiani, marciando per diversi chilometri, si avvicinassero al grande fiume a nord.
Qui poco alla volta era stato costruito uno sbarramento, una specie di diga di sassi e fango, simile a quelle costruite sapientemente dai castori nei freddi fiumi del nord, e l’acqua aveva formato un laghetto ove era possibile nuotare agevolmente per un lungo tratto, come in una grande piscina.

Era qui che Antonino aveva imparato lo stile anglosassone dell’attività natatoria: il crawl.

Durante le lunghe ore del pomeriggio, quando non c’erano impegni sportivi, diciamo così, svolgeva un intenso studio linguistico.
Imparava l’inglese, il russo, l’indiano con un intenso impegno scritto e di memorizzazione.

Avrebbe ricordato a lungo quell’impegno di studio e di pace.

E avrebbe anche conservato i libri faticosamente ottenuti, i quaderni compilati con bella e chiara grafia.

Quando, dopo alcuni anni, finì la guerra, giunse con la nave a Napoli e sbarcò in quella città piena di sole e di vita.

Con il pesante sacco giunse in treno fino a Polilitio, dopo varie coincidenze, e ritornò a cara.

Varcata la porta della casa sotto il monte, vide la madre e restò quasi senza parole.
Si abbracciarono.
“Tonin ... Tonin ... figlj@ mìa ... “

***

I tempi erano magri, non c’era da stare allegri, ma quella sera la mamma gli preparò la polenta come piaceva a lui, ed il sapore della farina dorata col sugo ed il cacio di pecora duro di crosta restò indimenticabile, dopo tanti anni di prigionia.


Così Tonino fu di nuovo nel suo paese che dominava tutto il Molise, dal Matese fino alle colline del molise termolitano.

Era possibile guardare verso l’adriatico e vedere un mare di terra dal colore cangiante in base alle stagioni e tutti i paesi come galleggiare, simili a navi.

Campobasso spiccava per grandezza su tutti, con due ali di case e Monforte al centro, come la carlinga d’un aereo.


***


Polilitio non era il paese più in alto, ma con i suoi 1027 metri e la sua posizione centrale era come un punto naturale di dominio visivo nella sua terra.

Molti anni prima i Sanniti lo avevano scento come capitale religiosa e politica della loro confederazione e vi avevano costruito un centro sacrale con un teatro, templi ed altri luoghi di culto e di attività politica e culturale.

Le morge del paese avevano rappresentato un baluardo naturale e come una fortezza non solo militare, ma metaforica e simbolica.

Era necessario per Tonino, a questo punto, a quasi trentaquattro anni, trovare lavoro.

Una mattina di aprile di sole terso e dall’aria tiepida, scese dalla sua casa sotto il monte all’ardichiana, la piazza principale con il monumento ai caduti, una bella statua di guerriero sannita in atto di fronteggiare un invisibile avversario.

Stava ammirando la statua, appoggiato alla casa di una sorella minore, quando lo chiamò Rocco.
‘Rocco ...!’
‘Come stai, Tonino ...?’
‘Bene ... e i tuoi?’
‘Stiamo abbastanza bene. Perché non vieni a pranzo da me, oggi ...?’

Tonino accettò.
A casa di Rocco conobbe così la sua futura moglie.
Non passò molto tempo e Ines e Antonino si fidanzarono.

Erano la coppia più bella e gradevole di Polilitio.

**

Lui, aitante ed atletico, era il nuovo segretario del Comune, lei minuta ed elegante, sempre affabile con tutti, amministrava la casa, si occupava degli anziani genitori, dopo la partenza di Rocco.

Si erano sposati in dicembre, alla fine del mese, ed erano partiti in viaggio di nozze a Napoli.

L’anno successivo, in ottobre, era nato Genni.

Era un bambino forte e man mano che il tempo passava si rivelava sempre più resistente.
A tre anni imparò a nuotare nel torrente vicino al paese.

Alla stessa età aveva i suoi sci di legno chiaro, i più belli del mondo.

Sciava a volte a fianco di Antonino.




***







***


La neve era spesso altissima e sovrastava la loro altezza, ma nell’insieme l’inverno era lieto e gradevole per la famiglia.

Al mattino la nonna gli dava una caramella squisita, incartata con cellophane rosso.

Il nonno si intratteneva spesso con lui.



***

**

*







Aveva decine di amici e in paese tutti gli volevano bene.

Per tutti lui era ... ‘r figl d r’scrtarij@, ... il figlio del segretario ...’ .

Passarono così anni di vera felicità, accanto al fuoco, leggendo la grande enciclopedia, nuotando e sciando.

Genn, come lo chiamavano i paesani, era l’amico di tutti ed era di casa in ogni casa.






e


In paese, dopo la liberazione, ferveva l’attività politica per trovare una persona adatta a ricoprire il ruolo di sindaco, il primo sindaco dopo il regime fascista.

Si trovava in paese allora, per una breve vacanza, Ettore, il fratello di Angelo e Leandro.

Dopo la Grande Guerra, cui aveva partecipato da ufficiale dell’Esercito Italiano, era rimasto nel Veneto, a lavorare in una banca di Venezia e ogni tanto ritornava a Polilitio, per dare un’occhiata alle sue case, alle terre, alla famiglia.

Era uno spirito libero, con idee vicine al socialismo ed intrise di qualche principio anarchico.

In paese si era trovato insolitamente bene, forse anche per l’avanzare dell’età, ed era stato preso da una specie di entusiasmo autenticamente politico che lo spingeva ad interessarsi con rinnovato amore e con passione rafforzata del suo paese, così affamato di possibili interventi capaci di migliorarne l’aspetto, la funzionalità.

Le strade erano sommariamente pavimentate, d’inverno la neve, sciogliendosi, formava una poltiglia che impediva ai passanti di transitare normalmente.
I ragazzi sfruttavano la situazione, nei giorni di scirocco in cui la neve si scioglieva, per formare piccole dighe e sbarramenti con la neve stessa e trasformare la strada in un fiume in miniatura con tanti piccoli laghi artificiali.

La neve era la risorsa più grande per i giochi dei bambini, ed anche in parte dei giovani, e proprio quando si preparava a partire per ritornare in cielo, regalava un ultimo gioco, quello del fiume e delle dighe.

Poi c’era l’annoso problema dell’occupazione.

I giovani, e non solo i giovani, stentavano a trovare lavoro.

Molti emigravano all’estero, nel nord dell’europa, o andavano a Roma, per occuparsi nell’edilizia o nella ristorazione.

Insomma, Ettore sentiva che doveva restare lì, e rinunciò al suo lavoro a Venezia per restare a Polilitio, presentarsi alle elezioni con la parte progressista, vincere e svolgere il suo mandato di primo cittadino.


***

Furono anni di impegno e di grande lavoro.
Per la prima volta il paese ebbe la corrente elettrica e l’acqua nelle case.
Ma il progresso stentava a radicalizzarsi, ad estendersi a tutti i ceti.
Restavano residui di povertà nei ceti legati all’agricoltura.

I ‘cafoni’ non riuscivano a farsi padroni della terra, che restava in mano a pochi proprietari, e stentavano con un lavoro assai penoso e faticoso per raggiungere le terre, lontane spesso dal paese.

Ettore non fu rieletto
Restava tutto il giorno chiuso nella sua grande casa a valle del paese, a scirocco.

Leggeva i suoi libri, lontano dal mare di Venezia, curava i suoi cani.
Ne aveva un bel numero e li portava a caccia, quando era consentito e le condizioni generali erano favorevoli.

Poi un giorno il nipote non lo vide e non lo sentì.
Entrò in casa, in quel palazzo così grande, e lo trovò morto fra i suoi cani che lo custodivano e uggiolavano, forse per svegliarlo.

Ma Ettore non si svegliò più e Leandro, il medico militare, restò il solo dei tre fratelli nipoti di Don Michele.

Portò i libri del fratello nella casa sua, che era più piccola e si affacciava sul Corso e li mischiò ai suoi, in una stanza ariosa piena di scaffali che era il suo studio e la sua biblioteca.

Qui zio Dottore, come lo chiamava Genn, trascorreva nella lettura o dedicandosi alla pittura le ore pomeridiane e serali, in una vita solitaria e silenziosa, visto che nemmeno lui si era mai sposato.

D’inverno si recava a Napoli, dove si tratteneva fino all’inizio dell’estate.

Aveva l’abitudine di realizzare tutta una serie di lavori utili per la casa utilizzando qualsiasi scatola di latta u di cartone.

Precorreva il moderno bricolage.

Aveva partecipato a tutte le guerre del ‘900, ma da ufficiale medico, non da soldato combattente.


***

La politica in paese, dopo la parentesi romantica di Ettore, era andata nelle mani tradizionali dei liberali e dei cattolici, che si affrontavano con liste simboleggiate da due animali e si alternavano nell’amministrazione del paese.





La parte cattolica era controllata da un maestro deciso ed abile.
Quella liberale da un possidente astuto ed energico.




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Le campagne elettorali erano caratteristiche, a quei tempi.

Gli animi si accendevano per le persone e pei i simboli.
Vanghe, arnesi agricoli vari, falci, martelli ed altro si impegnava in competizione con vacche ed altri amimali, fra cui la timida e spaurita colomba.

Pettegolezzi e verità bisbigliate si avvicendavano sulle labbra dei paesani.


§

“Kwand ka ... nd prmett kkiù ... puozz jttà r vlen ... vattaffaskwartà...puozzavérkundr...scimbis...sciutammò ... “ .

Le invettive, a tratti crude e rudi, ma sempre solenni e austere, pronunciate nel dialetto pretavnnannes tipico di Polilitio, si susseguivano come benedizioni alla rovescia, apotropaiche e catastematiche, mai veramente cattive, ma spesso, ancora più che perfide, malvage.

Erano non tanto profetiche, quanto frutto di una fatale constatazione.

La sera nella piazzetta del paese antico, fra la cabina elettrica e l’orologio sempre in riparazione e mai in orario, prima della salita che portava alla chiesa, sotto le morge dei corvi e del castello, accanto alla casa di Genn, in una piccola casa sempre della sua famiglia, si radunava il paese per ascoltare i comizi.

Faceva luce una enorme lampadina che illuminava, come il Sole di giorno, tutti, comunisti, cattolici, clericali, atei e liberali.

A turno gli oratori si avvicendavano sul balconcino della piccola casa all’angolo, una volta usata come farmacia, ora come garage per la topolino blue della famiglia.

Un gioiellino.

Genn fin da piccolo aveva certamente asoltato discorsi politici d’ogni genere, sebbene accesi dalla passione spesso troppo interessata e calcolatrice della competizione elettorale.

In comune, quando andava dal Padre, ascoltava parole del gergo amministrativo e fin dai suoi primi anni aveva avuto familiarità con l’amministrazione di una comunità.

E tuttavia, mai era nata in lui la passione per la vita politica, per l’amministrazione.

Aveva intuito l’esistenza d’un divario notevole, d’uno scarto, fra quanto l’umanità diceva, proclamava, prometteva e quanto poi effettivamente realizzava.


E questo divario lo aveva convinto a non dedicarsi alle attività politiche e amministrative, se non in caso di effettiva necessità.


Preferiva altre attività, oppure semplicemente girovagare per la grande casa o anche intrattenersi con gli amici.

Stranamente tutte le sue attitudini erano precipuamente politiche, eppure nonostante questo egli non sarebbe diventato un politico, almeno nella comune accezione.

Non avrebbe mai avuto quel diabolico carisma sociale, quella segreta capacità di promettere, quel certo facile e mellifluo fascino delle parole che avevano i politici di mestiere, o di professione, a seconda del senso dell’umiltà personale.

Ancora non sapeva cosa avrebbe fatto ‘da grande’, e nemmeno poteva prevedere se mai lo sarebbe diventato, nel senso compiuto.

E tuttavia dalle sue letture, dai racconti, dagli affetti di famiglia di volta in volta si proponeva di fare l’ingegnere, ma non quello edile o meccanico, quello ... navale.

Oppure il medico, per impedire alla morte di rapire le persone care.

***
Nessuno, che non le avrebbe compiutamente svolte, avrebbe potuto ritenersi deluso ancora più di lui da simili professioni, anche dopo averle effettivamente professate per tutta la vita, date queste premesse.
Sarebbe andato incontro al più completo insuccesso, e del resto, come avrebbe potuto immaginare che avrebbe scelto, per

mestiere, proprio quell’attività che da sempre svolgeva, date le sue attitidini all’educazione dei simili?


Sarebbe rimasto per sempre nella scuola, che a dire il vero da studente sinceramente non aveva mai prediletto se non per la necessità di farlo dopo lunga dimestichezza, ma che avrebbe amato poi da insegnante e da bibliotecario.

D’un amore discretamente ben corrisposto, se non proprio sempre restituito con la stessa intensità.

***



... ... Sunt lacrimae rerum et mentem mortalia tangunt ...

Sono fatte di pianto le cose e la vita ti tocca il cuore e la mente ...

Così scrisse Publio Virgilio Marone, il massimo poeta latino, nato a Mantova e morto a Brindisi.

... Mantua me genuit, calabri me rapuere,
me tenet nunc Partenope.
Cecini pascua, rura, duces ...

La sua tomba è a Napoli, città che amò quanto la sua natia Mandes, villaggio presso Mantua.

I terreni gli furono espropriati per effetto di quella politica di ricostruzione civile e agraria iniziata e realizzata da OttavianoAugusto dopo le lunghe guerre civili seguite all’uccisione di Gaio Cesare.

La dimestichezza di Virgilio con Mecenate e poi con lo stesso Princeps Ottaviano ne fecero il poeta quasi ufficiale della

Roma augustea ed il rappresentante di quella letteratura d’impegno dal forte connotato sociale e civile che occorreva proprio alla politica statale di pacificazione degli animi e ricostruzione dell’economia.

Non tornò più ad Andes, ma sempre la cantò e sempre la ebbe nel cuore e nella mente e in ogni occasione le api e i placidi animali della campagna, i ruscelli e gli arbusti, le umili tamerici, le canne fruscianti al vento gli furono cari.

L’anima di Publio era di vento, d’acqua e d’arbusti ed i suoi compagni, nei sogni, erano i comignoli delle case, con il fumo azzurro, le caprette bianche e i semplici pastori con le loro tenzoni e le loro canzoni.


A Polilitio la terra era importante.


***

Non era particolarmente fertile, tranne per la parte sistuata giù al fiume, r scium, dove l’aria era più mite e cresceva bene la vite, e tuttavia era fonte di attività, di reddito e dava importanza a chi la possedeva.

La famiglia di Rocco era molto ricca, facoltosa.

Era importante e benvoluta.


Chissà in quale mattina di aprile dolce e frizzante, con le strade deserte illuminate da un sole ammiccante e vicino, il capostipite di quella famiglia aveva avuto un’idea così brillante da farne una persona di successo, fortunata negli affari e nella vita.



Fatto sta che appezzamenti di terra e vasti boschi si erano accumulati per quella casata nei grossi fogli catastali di Lupone, grosso paese vicino a Polilitio.



Eppure, il possesso di tutto quel bene di Dio non aveva necessariamente e sufficientemente attratto i figli di Donatello e l’uno dopo l’altro avevano finito con l’andarsene in giro per il mondo in cerca d’un’altra fortuna che non sapesse di terra e d’alberi.


Antonino aveva sposato Ines ed era nato Genni, come lo chiamavano in casa, o Genn, come lo chiamavano in paese.

Il bambino cresceva forte, intelligente.
Amava i genitori ed i nonni e viveva felice in una specie di paradiso paesano e agreste.

Antonino gli insegnava a sciare, a nuotare.
D’inverno quando cadeva la neve a casa di Genn era festa.

Si preparavano sci, calzoni pesanti con scarponi e calzettoni.

Quando la neve cadeva a pel di gatto, il terreno si copriva presto, ma per sciare bisognava preparare bene con gli sci il fondo, passare e ripassare anche a spiga, perché la neve era frolla.

Fra il collavalle, nella zona di Col Ginestra, e la strada del Ponte 28, prima della casa di Giosi, sotto le case di zia Concetta e zia Ninuccia, nella discesa che arrivava fino al vallone di Castelluccio, si sciava tutto il tempo prima che facesse notte, senza le comodità di adesso, senza impianti di risalita.


Neve e neve, aria fredda e nevischio.

Ma quando c’era il sole era una meraviglia, un incanto.

Quando tornava a casa, Genn era coperto di ghiaccioli sotto la gola e sopra le scarpe.


Il montgomery avana che gli aveva regalato zio Rocco aveva una striscia di stoffa, sotto la gola, completamente ghiacciata.
Si metteva a sedere accanto al fuoco caldo e la sedia si tingeva di marrone, perché i pantaloni bagnati trasmettevano il colore alla paglia.

La cucina era accogliente, sempre piena di cose saporite.

Spesso era piena di ospiti, parenti ed amici.

Una sera d’inverno, stanco, Genn si era assopito a tavola ed il padre aveva preso una parte di salsiccia dal suo piatto, mangiandola velocemente.
Il bambino aveva osservato tutto, commentando fra sé:
“ ... papà m vò bben e z’é arrbbata la salgccella maja ...”.
Papà mi vuol bene, eppure ha rubato la mia salsiccia ...

Questo era il clima di quelle sere d’inverno a Polilitio, dopo le sciate e le serate calde nella cucina confortevole.

**

Quando le giornate cominciavano sensibilmente ad allungarsi e l’aria a farsi più tiepida, si avvertiva l’avvicinarsi della primavera.


Dopo marzo, aprile invadeva i campi e preparava la festa di maggio che arrossava i campi con i papaveri e li ingialliva con il grano maturo, quando il mese volgeva al termine.

Di giorno in giorno saliva la temperatura dell’aria, il cielo era d’un sereno sempre più intenso e completo.
Le nuvole, quando arrivavano, troneggiavano agli angoli del cielo spinte da venti vigorosi e caldi, mentre la terra era accarezzata da zefiri delicati, a tratti anche intensi.


Quando le scuole chiudevano, la mattina era libera dagli impegni e Genn con i suoi amici scendeva al vallone.

Dapprima era stato il padre ad accompagnarlo.

Gli aveva dato saggi consigli.
Come per esempio quello di non andare mai da solo, assolutamente, ma sempre almeno con altri due compagni, così da permettere ad uno di restare, nel caso fi sosse sentito male uno di loro, ed a un altro di andare in paese a chiedere aiuto.

C’erano almeno tre chilometri di strada in discesa, per il vallone.

Era terra franosa, a tratti, in certi punti la vegetazione era rigogliosa.

Quando scendeva con Tonino, Genn era felice.

“Papà, spogljm, ca i, m jett ...”


Papà, diceva quando si avvicinavano al vallone e cresceva lo scroscio dell’acqua e quasi se ne sentiva l’odore selvatico e fresco, ... papà, aiutami a spogliarmi, che mi tuffo ...


Al vallone avevano scelto fra tanti il ‘kwatin’, il catino, la pozza adatta per il bagno, in genere situata sotto una briglia, ossia un muro trasversale di sbarramento capace di frenare in continuo smottamento del terreno per effetto delle piene d’autunno e d’inverno.

L’acqua aumentava di volume, la conca di profondità e di larghezza se veniva sistemata una piccola diga di sassi e fango all’uscita a valle.


Certo, non era grande cosa quella specie di piscina di limitate dimensioni, ma era sempre una specie di miracolo per un torrente di montagna, lontano dai laghi e dal mare.

Nel vallone c’erano rane di tipo diverso e girini, l’acqua era verde cupo o grigio ferro, il rumore delle cascate cha riversavano acqua nelle conche contribuiva a creare una sensazione di fresco.

Portavano con sé, Genn e Tonino, fette di pane con ciliegie, oppure con sale e pomodoro e quel cibo così semplice sembrava squisito, dopo il tuffo nell’acqua verde.

I pomodori e le ciliegie andavano strofinati sulle fette di pane.

Pane, sale e pomodoro era il massimo.

Il cammino del ritorno era molto impegnativo, così com’era tutto in salita.

Arrivati a casa, loi attendeva quella lieta sorpresa che poi sarebbe diventata una consuetudine: i biscotti che la mamma confezionava a forma di pesciolini, dolci e croccanti.

La mamma era un genio in cucina e nell’amministrazione della casa.

I piatti che cucinava erano prelibati.

Almeno una volta al mese Ines prendeva la corriera e con Genn andava a Castel di Sangro, in Abruzzo, dove si trovavano i negozi ed i magazzini più belli del mondo.

Erano pieni di cose straordinarie, di giocattoli, di biciclette, d’ogni genere di attrezzo per lo sport.


C’era un negozio di scarpe dove regalavano un’automobilina di celluloide con una sfera di metallo che le permetteva di muoversi in modo semplice ed originale.

E poi, gli arancini di riso d ’una rosticceria in una piazza specie erano davvero straordinari.

Ma il viaggio più lungo, fu quello compiuto con sua Madre alla volta di San Giovanni Rotondo, per visitare un personaggio che già era considerato straordinario, un Santo ante litteram, Padre Pio.

L’estate trascorreva fra bagni al vallone e passeggiate in bicicletta.

C’erano poi le escursioni nel bosco della Rocca, pieno di fragole saporite, piccole e rosse, di bosco.

Poi arrivava settembre, con le ‘mbrikole, ‘mbrìkwl, le more, rosse e nere.

***
Dopo settembre, ottobre rinfrescava.

Si compravano scarpe pesanti, con la gomma che scricchiolava quando passavi sulle mattonelle, e pantaloni di flanella, caldi.

Si tiravano fuori maglioni e calze pesanti.

Ricominciava la scuola, con libri e quaderni nuovi che odoravano di carta stampata di fresco, di cellulosa.

I quaderni avevano ogni anno le righe diverse, a seconda della destrezza degli studentelli scrittori.








Arrivava ottobre quasi all’improvviso, dopo le giornate di sole e d’azzurro di giugno, le calde serate di luglio e gli intensi colori d’agosto.


Settembre quasi poteva ripetere e continuale il fulgore e la gradevolezza estiva, con giorni tersi e limpidi, con temperature più miti e meno intenso caldo.

Poi, una mattina ti alzavi e avevi freddo.
Dal nord scendeva una refola catamatica che ti convinceva a mettere il maglione.

Poi il vento si rafforzava, la temperatura calava vistosamente, gli alberi si agitavano, le nuvole fuggivano al cospetto della vuorja impetuosa e gagliarda …

Si avvertiva subito l’imminente presenza del re inverno.

Sarebbe arrivato fra non molto, gelido, e faceva intanto avanzare le sue avanguardie.

Si tornava nelle aule della scuola con il rimpianto del periodo trascorso al fiume, nei campi, sulle morge, nelle scaramucce con i compagni.

Erano ancora recenti gli ultimi dispetti, i litigi spesso simulati, come le guerre fra gruppi rivali.

Era usanza delle donne a fine agosto trasformare i pomodori maturi in crema liquida da conservare in bottiglia,
impasto a pezzetti da traattare ugualmente e pasta più consistente, che veniva messa ad asciugare all’aperto su tavole di legno.

I più terribili fra i ragazzi avevano preso l’abitudine di gettare dei sassi in quell’impasto prelibato, così da attirare spesso l’ira e gli improperi delle povere buone donne.

Per Genn quello era un vero crimine, perché per lui la conserva di pomodoro era la cosa più saporita del mondo, tanto che spesso, a casa, invece di ‘rubare la marmellata’, rubava la conserva di pomodoro.

Rubava si fa soltanto per dire, trattandosi di cose di casa sua e di ‘refurtiva’ di modesto valore.

Era il tempo delle cose semplici, almeno apparentemente, non artate né contraffatte.

Il burro era conservato in un orciolino pieno d’acqua, per pochi giorni.
Le uova erano conservate per qualche giorno in più immerse nelle lenticchie, nei fagioli.

Salcicce e sopressate, una volta secche, potevano essere immerse nella sugna e appese al soffitto.

Tutto il resto, se non veniva cotto e conservato come conserva o marmellata, era essiccato e poi reidratato al momento dell’uso.

***

Genn aveva visto spesso i granai, con un’apertura piccola a saracinesca nella parete di legno chiaro e il grano scorrere come liquido pronto per essere macinato e i grandi orci di terracotta per l’olio, custodito nelle cantine, con grossi sassi per impedice ai sorci di togliere in parte il coperchio e bere il prezioso condimento di cui erano ghiotti.

Il dramma vero però era trovare uno di questi poveri animali annegato dopo essere caduto in tanta abbondanza, nel tantativo di nutrirsene.

Ma questi erano casi assai rari se si sapeva prevenire questa eventualità rendendo inaccessibile la giara.


Simbr n’ sorg mbuss’all’uoglj
Sembri un topo bagnato nell’olio.

Era l’espressione usata per indicare qualcuno ridotto a malpartito da difficoltà di vario tipo, specie metereologiche.

Non che fosse più rassicurante sentirsi dire ...

Simbr n’mscill ...
Sembri un gattino ...

Inteso, un povero gattillo micillo malridotto ed emaciato ...
***

Così, passato il tempo delle conserve, dei sottolio e deisottaceti, il paese di Polilitio si preparava ad affrontare il fresco e il freddo.

Nelle cantine la legna veniva riposta in forma di grossi tronchi, con qualche ceppone per le giornate invernari in cui fosse necessario accendere il fuoco e quasi non pensare più alla sua continua alimentazione, specie per le feste di Natale, e con tocchetti più piccoli e maneggevoli.

La fascina, legata insieme, serviva per l’innesco della fiamma all’atto dell’accensione.

Il fuoco era il cuore e la mente della casa.
Intorno ad esso si pensava, si parlava, si discuteva, soffiando ... dendr a r’ scjsscjatur, ... nel soffiaturo, una canna ferrea che serviva per convogliare il soffio ricco d’ossigeno sulla brace, su un tizzone lento ad accendersi, si poteva suscitare una fiamma brillante e vivace.

Chi si svegliava per primo al mattino lo accendeva, ripulendo il sito dalla cenere e disponendo sapientemente carta e ceppe, ossia rametti secchi.
Sopra venivano messe le parti di legna più piccole e accanto ceppi grandi, cepponi e quanto si volesse.

Una volta avviato, il fuoco bruciava lento per ora, ma andava custodito e ravvivato, badando che su di lui, appeso alla catena ad una certa altezza, vi fosse il cotturo, il grosso pajolo sempre ben pieno d’acqua, almeno oltre la metà del recipiente.


Il calore e la luce delle fiamme caratterizzavano il clima della cucina per tutto il giorno.

A novembre, quando il bosco forniva gallucci, funghi d’abete, si puliva dalla cenere la parte bassa del focolare e si arrostivano i funghi con olio, sale e aglio.

Erano squisiti.

A dicembre si arrostivano le croste di cacio comune di pecora, squisito, o le teste di caciocavallo.

Le scamorze arrosto erano favolose, rosse e croccanti in superficie, morbide e filanti dentro.


***

Mentre il fuoco riscaldava illuminando la cucina, i gatti arrotolati e con la testa che si tuffava nella coda sonnecchiavano, sempre attenti e pronti a scattare.
Nella stanza ove era custodito il fuoco si svolgeva gran parte della vita giornaliera.
I giovani studiavano le lezioni e le mamme preparavano il necessario, cucinavano e stendevano i panni sulla stufa per poi stirarli.
Le visite degli ospiti si svolgevano, con le conversazioni quasi interminabili accanto al fuoco, proprio in cucina, prevalentemente.
Erano delle vere e proprie assemblee ristrette delle più alte autorità della famiglia, del rione o del paese.
Potevano preludere a decisioni importanti di carattere economico o politico, o semplicemente sociale, quando certi pareri fossero stati espressi e accettati con più o meno diretto ed esplicito consenso.

Accanto al fuoco si svolgevano anche quei colloqui riservati che la segretezza degli argomenti rendeva simili alle volute di fumo volubili e leggere e alle vecchie, le scintille di fuoco che, dopo un iniziale strepito, si perdevano su per la cappa nera e fuligginosa dell’alto camino.

Quel camino dal quale entravano le streghe, di notte, e si fermavano a contare le fascine, fino a quando, senza ultimare la conta, erano costrette a volare via dalla luce del giorno.
Era per questo, anche, che dovevano esserci oggetti da contare accanto al fuoco e sulle porte,
Fascine e scope, capaci di confondere le eventuali straje, immaginarie visitatrici notturne apportatrici di non ben precisati inconvenienti.

Quando ormai Genn stava pe compiere i suoi primi dieci anni, nacque una sorellina piccolissima e desiderosa di cure assidue.
Tutta la famiglia di dedicò a lei.

Già cominciava a parlare e Genn dovette andare a Kampwash per completare gli studi.
A Polilitio non esisteva ancora una scuola media.

L’entrata in collegio, un austero convitto nazionale, fu presa assai male dal ragazzo.

Allontanarsi dal suo paese adorato fu un vero dramma, e per nulla gradito fu dover sapere che sarebbe rimasto lì per almeno otto anni.

La sua vita cambiò.
Non fu più il bambino spensierato e dinamico che era.
Si chiuse in un silenzioso atteggiamento cogitabondo e quasi scostante, come se fosse stato derubato d’un tesoro in cui confidava assolutamente.

E per anni quasi non si riebbe.

A scuola non brillava certamente, anzi, quasi pareva volesse risparmiare le forze.

Eppure, riusciva a procedere, mentre diversi suoi compagni di classe si perdevano.


Erano trentaquattro in quarta ginnasio e giunsero in sedici alla terza liceo.

***
Genn superò l’asticella degli esami di stato di misura..
Alla maturità restò solo in collegio.
Era l’unico candidato.
Solo in quell’enorme palazzone, all’ultima piano, gli pareva di essere un sopravvissuto.

Era stato otto anni in convitto, con una borsa di studio.

Aveva contribuito utilmente alle spese della famiglia senza ricevere gli onori che sono riservati ai secchioni che si coprono di otto e di elogi senza comunque far crescere altro che le spese di famiglia.
L’unico otto, enorme, che purtroppo gli competeva era d’essere stato otto anni in collegio, rinunciando ad un mondo, un paradiso, che non avrebbe mai più ritrovato.

***




***



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Durante gli anni del collegio a Polilitio la vita pareva essersi addormentata.

Le case quasi cadenti, le attività poco redditizie, una agricoltura stentata e poco favorita dalle pietre abbondantissime, tutto insomma pareva voler convincere gli abitanti giovani ad emigrare per cercare fortuna altrove.

Così era iniziato un esodo verso Roma, per i fortunati, e verso la Svizzera e la Germania per i meno favoriti dalla sorte.

Qualcuno volle andare in America, del Nord, del Sud e Centrale.

In paese restarono i funzionari dello stato ed i possidenti terrieri.

Fra questi primi, Antonino con la famiglia.
Non era certo un possidente, non aveva praticamente nulla.
Lavorava per lo stato, era Segretario in Comune.

Era abitudine, in un contesto come quello, allearsi con gli agrari e con i moderati benestanti e ‘benpensanti’ del paese, per vivere tranquillamente e non avere grossi grattacapi se non quelli connessi con la pratica della egemonia sui ceti meno abbienti.

Forse per una debolezza congenita, o per amore delle sorelle e fratelli così numerosi, oppure per una specie di vocazione al complicato, Antonino scelse la strada della coscienza e della legalità, tanto da mantenersi indipendente da ogni influenza sociale e politica in paese.

Conduceva una vita semplicissima, fatta di impegno in ufficio e di lavoro domestico spesso caratterizzato dallo studio delle norme giuridiche, assai complesse.

Spesso venivano a chiamarlo a casa, anche nei periodi di riposo, visto che abitava sulla strada per il Municipio.

Il freddo eccessivo dell’inverno, la mancanza di scuole adeguate per la figlia minore, la prospettiva di avere un trattamento economico migliore e soprattutto più regolare che non a Polilitio lo convinsero infine a partecipare ad un concorso per un avanzamento di grado a Segretario Generale.

Quando Genn era all’ultimo anno di collegio, proprio agli ultimi mesi, seppe del trasferimento in un paese di mare lontano, dove il clima era sempre mite, dove era sempre primavera.

Si trattava d’un promontorio, e lo cercò sull’atlante.
Era un monte circondato dal mare, collegato alla terraferma da strisce di sabbia.

Vi arrivò col treno, dopo un viaggio che gli parve lungo, senza fine.

Era sorpreso da quanto gli stava accadendo, eppure sentiva, insieme alla curiosità delle cose nuove, come una delusione per la perdita, non ancora definitiva, delle sue rocce, della neve frolla e della neve soccia, degli scarponi con le stelle, delle sere accapo al fuoco, coi gatti che facevano le fusa e che lui avrebbe rivisto solo chissà quando.



Un tempo, lontano nel tempo e nello spazio, un giorno nella notte, fuori del tempo, nella luce nera dell’atempo.



Kell ser’akkap’a r’fuok … quando il padre gli leggeva Orazio e Virgilio e lo esortava con energia a memorizzare frasi e concetti

Insuevit me Pater meus optimus …

Dice Orazio di suo padre, a proposito della sua filosofia di vita, corroborata dalla pratica epicurea, supponiamo.


La partenza da Polilitio corrispondeva all’inizio d’un nuovo corso di studi, per Genn.

Dopo il liceo lo aspettava l’università, con studi di lettere.

Nel frattempo lo aspettava la calda estate dell’Argentario e nuove amicizie.

Era leggermente immalinconito per il distacco, che del resto era iniziato otto anni prima, dalle morge, dagli scavi, dalle sorgenti sannitiche, ma si sentiva anche incuriosito, come chiamato ad una sfida, in una terra nuova eppure piena di cittadini provenienti dalle terre limitrofe di Partenope, di Napoli.

No era affatto noioso il clima e l’università procedeva tranquillamente, fra libri da studiare e letture varie.

Quando pensava al futuro, si immaginava insegnante di fronte ad una classe che lo ascoltava, intento a spiegare qualche argomento che gli stava a cuore.

Trascorsero alcuni anni e già si preparava a sostenere gli ultimi esami.
Scelse la tesina, prima della tesi.

Era sul rinascimento fiorentino, su Girolamo Savonarola, i Medici, i Borgia, Alessandro VI.

Si appassionò alla profezia medioevale.

Al concetto della profezia in genere, che rifletteva certi atteggiamenti non contemplativi e descrittivi della realtà, ma il desiderio insito in ogni parlante di modificare in qualche modo la realtà ambiente contestuale, o di predirne il cambiamento.
Tutta la letteratura in genere modifica una realtà nel momento stesso in cui vuole anche solo descriverla, e per questo è relazione mediata e non disinteressata con il contesto, o con uno dei contesti, con l’effetto di prospettarne una qualche evoluzione o involuzione che scaturisca per il futuro da una presentazione contestualmente modificata.
Scrivere significa cambiare l’interpretazione dei fatti, cambiare i fatti, lasciandoli quali sono eppure quali più non saranno.
Leggere significa ignorare i fatti per il tempo di considerarne una interpretazione, assentarsi per il tempo della lettura per ignorare un contesto ambiente e considerarne uno proposto e suggerito nella interpretazione d’uno scrivente familiare o estraneo.

***


Fare profezia può voler dire valutare il presente per prevedere eventi possibili, probabili, ed il terreno del probabile si proietta ad un passo dal presente, nel futuro immediato o lontano.
***
Fare della satira, vuol dire spesso mettere in evidenza i difetti d’un ambiente per provocarne direttamente la correzione, e quindi questo genere letterario tende a cambiare espressamente un contesto, un comportamento, con altri probabili, possibili ed eticamente consoni ad un principio superione sul piano morale.



Il verismo, la letteratura impersonale, il realismo, non sono che forme personate, mascherate di interesse per le cose.

Al di là della discrezione fredda della ‘realtà’ o d’una delle tante realtà, affiora un interesse spesso malcelato per intenzioni, motivazioni e intenzioni dei personaggi e delle loro dimensioni contestuali.

Genn si dedicava in quel periodo ad un biografia di Savonarola.

Aveva scelto questo argomento per la tesi di laurea quasi senza una reale volontà di scelta diretta, ma per una sorta di selezione mediata, visto che il suo professore a Roma gli aveva detto che tutti gli argomenti di storia erano stati scelti, tranne quello riguardante il frate riformatore e predicatore profetico ferrarese.

Così, scorrendo il manuale di storia moderna di Giorgio Spini, nel secondo volume, agli inizi, aveva trovato il profilo di Frate Girolamo Savonarola.

Si era affezionato a quel personaggio, a quell’uomo assai speciale, ostinato, quasi un residuo arcaico proiettato oltre la maschera esasperatamente commercialistica della politica e della società rinascimentali.

Così, dopo aver scelto un buon numero di libri sull’argomento, aveva scritto la biografia del profeta.

Visto che scriveva ancora piuttosto lentamente a macchina, Antonino aveva dattilografato il suo manoscritto.

A lavoro finito, aveva consegnato copia al professore dell’università, a Roma, ed aveva ricevuto un giudizio complessivamente lusinghiero.


Molti anni dopo, Genn ripensava a quel periodo come ad un periodo sereno e felice in cui aveva studiato con suo Padre come se fossero stati due colleghi di liceo o d’università.


E avrebbe sempre conservato quel manoscritto su Savonarola scritto in collaborazione con Antonino, con il suo aiuto, cercando sempre di ripetere e rinnovare quell’attimo felice per far sì che non fuggisse via, mai e per nessun motivo.



***

Gli sembrava a volte, ritrovandolo nel cassetto di legno chiaro insieme ad altri appunti, che gli trasmettesse quelle stesse impressioni che provò in quei giorni d’un Natale lontano di maglioni grigi, di vento freddo e di mare sotto il balcone alto, di doni e di letture, di frutta secca e di momenti in famiglia.

Era come rivivere quel tempo e provare le sensazioni di allora sommate a quelle presenti e vive intorno a lui.

Come due contesti, più vite parallele e conviventi nel suo cuore e nella sua mente.






*****
***
*



Era quasi l’ora di andare a casa.
Le tredici e quindici.

Erano sei ore che Genn si tratteneva in biblioteca, quel sabato mattina di metà marzo.

La scuola era stata quasi deserta nei due giorni precedenti.

Erano i giorni dedicati a due Alunni che se ne erano andati in un incidente stradale, di notte, dopo la cena dei cento giorni, quanti ne mancavano alla fine del loro ultimo anno scolastico delle Superiori, lasciando la scuola sbigottita, mentre correvano con altri amici verso il mare, per scrivere sulla sabbia il voto che avrebbero voluto agli esami di stato.

Giorni di lacrime, di assoluta disperazione per gli Alunni della Scuola dove si trovava la biblioteca dove prestava servizio Genn.

Il giorno prima, nelle dodici ore e passa di biblioteca, per la prima volta si era avvertita nell’aria quella sensazione di immobilità delle cose e dei pensieri che segue un evento compiuto, assoluto, come quello di due Giovani chepartono per sempre e che non vedremo più scendere a prendere un vocabolario per la versione, un codice civile nella grande biblioteca.

La sera precedente, uscendo dalla scuola deserta, con la bandiera segnata a lutto, aveva avvertito il profumo frizzante della primavera passando davanti alla grande basilica del Sacro Cuore, fra una doppia fila di ciliegi giapponesi in fiore, d’un rosa intenso.

Lo stesso profumo di tanti anni prima sentito in posti assai diversi.


Muore giovane chi è caro agli Dei.


I libri delle versioni di greco, al ginnasio, erano pieni di frasi sentenziose e di massime morali e civili relative al mondo d’un tempo, quando era affidata alla scrittura la saggezza ufficiale, e non alle medioteche o ai manuali di internet.

I moderni oracoli si esprimevano su siti web, come gli antichi seguivano l’ispirazione folle e maniaca delle pizie, a Delfi, o i voli delle foglie a Cuma, ove la Sibilla vaticinava nel caos del vento e della malincolìa dell’autunno.


***
*

Del resto, cosa è mai una biblioteca, se non il luogo ove sono custodite le parole accuratamente scritte e stampate degli uomini che hanno desiderato in qualche modo di lasciare messaggi per chi volesse leggerli …

E molti Autori nemmeno volevano questo.

Omero, per primo, non poteva certo avere le fisime editoriali d’un vanesio autore moderno, che prima ancora di scrivere e di pensare contatta un editore, un buon commercialista e si informa su prezzi e compensi, magari a pagina o a colonna, magari studiando la grandezza delle lettere, la carta, i fogli.

Virgilio avrebbe voluto fosse distrutta la sua Eneide, incompiuta perché priva del labor limae

Ma serviva ad Ottaviano Augusto per completare culturalmente la sua politica di pacificazione sociale seguita alle sanguinose guerre civili dopo la morte di Cesare ed iniziata paradossalmente con l’esproprio delle terre di Publio Virgilio Marone, emigrato da Andes presso Mantova a Roma.



Mantua me genuit.
Calabri me rapuere.
Me tenet nunc Partenope.
Cecini pascua, rura, duces.



Così diceva la pietra tombale del grande mantovano, situata presso Napoli, città a lui cara.

***

In fondo, stampare è una scoperta recente, e nemmeno ha reso molto più semplice la comunicazione, anzi spesso l’ha rasa un’attività quasi chiusa e monopolistica, per pochi addetti, quasi per i soli scribi moderni.

Ogni essere vivente, e quindi ogni animale dotato di spirito vitale, ogni piante persine, ogni cosa assoluta, e quindi ogni uomo, che è cosa, essere animato e animale, è dotato di una capacità creativa di idee, immagini e ‘parole’, ossia segni che trasmettano ad altri intenzionalmente o meno qualsiasi sensazione, sentimento o idea.

Ognuno è autore ed editore, concepisce e pubblica, anche senza gli orpelli a volte vanesii e ridicoli delle copertine e delle carte editoriali che spesso nascondono solo operazioni commerciali non sempre intelligenti, quasi sempre vanitose.

Exegi monumentum aere perennius …

Esclamò tempo fa un poeta lucano apulo, accorgendosi che la ‘carta’ su cui erano scritte le sue Odi sarebbe stata alla lunga più duratura del bronzo.

Ma a noi non sono giunti gli originali dei suoi scritti.

Sono giunte le copie.

Mentre i bronzi delle sculture precedenti alle sue opere, i calderoni etruschi coevi e tutti quelli anteriori a lui anche di sette secoli sono in parte egregiamente conservati, e sono gli originali.

Perché la letteratura è proprio questo, un copia copia continuo di pezzi che vanno rapidamente in rovina.


Non solo l’arte stessa è mìmeesis, come diceva Platone, in quanto solo le idee purissime per lui sono compiutamente reali, e quindi non solo ogni attività umana è imitazione, ma lo è a maggior ragione un’attività, cone la scrittura e la letteratura, specialmente dopo la scoperta delle tecniche di stampa. che esalta la capacità di produrre innumerevoli copie una volta stabilito un effimero archetipo che non è altro a sua volta che la ‘prima copia’.


Orazio, in buon lucano esperto di poesia blandamente satirica e celebrativa, amante della vita frugale e semplice e poco incline ad avvezzarsi al caos della vita cittadina, preferendo soggiornare in un podere della Sabina, non lontano da Roma ma sufficientemente appartato dal suo disordine, aveva intuito che il caos delle fotocopiatrici produce un effimero valore di eternità a qualsiasi documento alfabetico o fotografico, rendendo spesso le copie, adeguatamente ‘computerizzate’, più fedeli addirittura dell’originale.

Così ogni uomo desidera che qualcosa di quello che ha detto sia ricordato, sia valutato e apprezzato sinceramente, e magari amato.

Anche appena un poco.

E quello che lasciano gli uomini, è scritto nel cuore dei figli, ed ogni figlio ne ha un ricordo diverso e complementare.

Un Padre non è un Padre solo, ma è un Padre per ogni figlio che ha.

Per questo mio Padre non può essere il Padre di mio fratello.

Il Padre di mio fratello sarà ‘suo’ Padre, perché con lui deve essere stato diverso.


***


Così ogni Autore è diverso, da lettore a lettore.

E di tutte le infinite cose che le sua mente pensa, una piccolissima parte resta ed è racchiusa nelle sue opere scritte, se ne ha lasciate.

Dio stesso, Autore delle Sacre Scritture, di sé, del cosmo infinito, di tutto l’universo, ci ha dato pochi libri, e di questi sono Autori materiali i Profeti e gli Evangelisti.

Molti di essi erano praticamente analfabeti.

Ma questo conferma l’idea apparentemente strana che la letteratura preesiste all’esistenza stessa ed alla ‘scoperta’ della letteratura e dell’alfabeto.

Del resto, non ha Omero creato insuperabili opere letterarie in un’epoca in cui alfabeto e letterature … non esistevano?
La mente, la Memoria, l’Ispirazione, che un tempo erano chiamate Mnemosyne, Muse, Thèia Manìa, sono di per sé stesse carta, computer, stampa.

Ogni Uomo è scrittore e poeta, editore e tipografo, dentro di sé.


Pensa e progetta, e ‘pubblica’, con la parola, che si scrive più o meno indelebilmente nell’animo degli altri, che sono quindi la … sua biblioteca, ante litteram, ove i libri sono promesse, idee, impressioni, giudizi, non mattoni di carta, e quindi facilmente memorizzabili, ma anche facili da distorcere o dimenticare, sebbene nessuna operazione sia per la nostra mente più difficile del dimenticare.



Siamo, quindi, tutti degli uomini libri.


Siamo continuamente considerati, contenuti, rielaborati nella mente di chi ci vede, ci sente.
I nostri messaggi, intenzionali o meno, più o meno rielaborati, risiedono accanto ai sentimenti altrui.
Amici e nemici comprendono, dimenticano, apprezzano o disprezzano la parte di noi che può essere trasmessa, quasi rubata.

E’ come se non portassimo gli altri dentro di noi, così i nostri simili sono dentro la nostra mente, messaggi incisi dentro un contenitore, una teka, sconfinato perché incommensurabile e senza confini palpabili.

Montagne, stelle, deserti, pianure considerevoli, lo stesso universo possono essere ridotti ad un’idea senza dimensioni.

Come l’affetto dei cari o l’antipatia, la fedeltà degli amici ed il loro tradimento, tutto e l’opposto di tutto.

***
**
*

Così la persona, che in latino voleva dire maschera, dall’etrusco phersu, che ci ha detto e scritto qualcosa, in realtà è presente in noi, con il suo messaggio, come è presente il sole con il suo calore, e sono presenti le sue Grandi Sorelle, le stelle, con la luce che ci spediscono, e che arriva anche quando loro non ci sono più.

La luce è una lettera, un messaggio che viaggia ad una velocità enorme per noi, ma modesta per l’infinità dello spazio.

Quando una stella collassa, la sua luce continua a viaggiare, e quindi possiamo vedere l’astro anche quando non c’è più.

La luce per noi spesso è la stella stessa.

Un libro è la luce d’un Autore, e ci arriva anche quando lui non c’è più, o tace, o è comunque assente.

In una biblioteca sono presenti non le opere, ma gli Autori stessi.

Nelle sere buie, fredde e solitarie d’una biblioteca, quando la pioggia fuori sferza i vetri e il vento squassa gli alberi attoniti sbatacchiandone i rami, nella luce fioca e tremolante delle lampade un bibliotecario solo apparentemente è solo, ed una biblioteca in realtà non è mai deserta, ma è piena di centinaia, di migliaia di Autori che parlano e si scambiano le loro idee, magari si copiano.

Soltanto chi veramente sa cosa è un libro ne avverte la presentia absens, la presenza assente.

Sono felici quando un giovane prende un loro libro.
Gli Autori vivono nelle loro pagine e desiderano essere letti.
Qualcuno, magari un po’ scapigliato, vorrebbe esser divano …
E probabilmente è per questo che nell’opinione comune nelle biblioteche si dorme, si sonnecchia, ci si abbiocca, si schiacciano pisolini e si subisce lo scapuzzone.

Il motivo profondo è che la maggioranza dei frequentatori, i più fra essi, vogliono essere letti, ne consegue un sonno generalizzato fra gli utenti …

***

Se volessero essere solo divani, oppure poltroncine senza poggiabraccia, o sedie, tutto sarebbe più facile e gli utenti sarebbero assaliti meno spesso da un dolce sonno rasserenatore, fra un paragrafo e l’altro.

Certamente, è lecito a volte scherzarci su, e non è affatto proibito dire il vero sia pure con facezie, non proprio ridendo, ma sorridendo divertiti.

Satura castigat ridendo mores.
E’ possibile addirittura correggere i costumi, col riso.

Ma non sia smodato, sia piuttosto un sorriso gentile eppure tenace, forte, capace di contagiare e purificare sul piano etico.

***

‘Risus abundat in mensa cineforum’ … anzi … ‘cinesorum’ …


Aveva fatto conoscenza con le biblioteche fin da piccolo.

A casa dello zio Leandro, nipote di don Michele, medico e appassionato di letteratura, aveva sempre potuto vedere migliaia di libri ordinatamente sistemati lungo le pareti d’una confortevole camera ai piani superiori della sua casa lungo il corso del paese.

Quella era una biblioteca, non una grande biblioteca pubblica ma certamente un’ampia raccolta ordinata per generi, completa d’una parte medico scientifica e d’un’altra umanistico letteraria.

Lo zio sedeva volentieri nella stanza dei libri, intento a leggere e spesso riassumeva ordinatamente quanto aveva letto, come uno studente diligente, anche se presumibilmente nessuno lo avrebbe mai controllato come di regola si fa con gli alunni.

Quando Genn capitava in quella stanza, veniva assalito come da una piccola ansia di prestazione.

Chi e come avrebbe potuto leggere tutta quella carta?
E come riuscire a conservare tutti quei libri, e per chi?

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A volte lo zio si tratteneva nella sua biblio per dipingere.
Dipingeva qualsiasi soggetto, per lo più paesaggi, vedute, ed usava tavolette di legno e di cartone, non tele.

Alcuni paesaggi erano paesani, di Polilitio, ma c’erano anche vedute della Grecia, templi, vassoi di frutta, trote, un autoritratto.

Aveva anche dipinto una intera parete della cucina con una veduta che raffigurava una ampia terrazza aperta su un paesaggio verde, come quello che si poteva apprezzare dalla terrazza, aperta verso Pratopiano, la città più importante delle regione, verso la piana del Trigno e del Verrino, esposta a scirocco, verso quel mezzogiorno sorgente di civiltà da tempo addormentato e impigrito, in attesa d’un risveglio auspicato da tanti ma non favorito nei fatti da alcuno.

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Il dolce sud, con le sue campagne non sempre del tutto coltivate e le colline a perdita d’occhio.

I suoi boschi cedui pieni di sorgenti nascoste, i suoi boschi di abete con i funghi buoni da arrostire e l’ombra fresca e ristoratrice.

La sua gente e le sue parlate a volte cantilenate, la sua cucina saporita, le sue verdure scure e la passione per le questioni da rendere irresolubili, sul piano umano, sul piano giuridico e persino sul piano clinico.

La soluzione d’un problema molto spesso può essere rappresentata anche dal renderlo cronico, eterno, così da annullare l’ansia derivante dal dover cambiare atteggiamento e abitudini alla sua fine.

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La fine d’un’influenza invernale, d’una bronchite, è positiva, la fine e la guarigione clinica da un malanno sono cose buone, ma la fine d’una lite può essere persino fastidiosa quando il rancore si è radicato come una punizione ad una colpa, una giusta vendetta, magari incruenta ma piena di soddisfazione e persino di una qualche gratificazione.

Che dire poi della fine d’un qualche presunto atteggiamento psichico troppo originale, o della sua attenuazione, o addirittura della scoperta della sua inesistenza?

Comporterebbe tutta una serie di correlativi cambiamenti nel comportamento contestuale, addirittura dei mea culpa per le erronee valutazioni e i giudizi negativi, l’emarginazione, l’isolamento.

Per questo il contesto preferisce, forse perché tutto sommato è la più parsimoniosa delle scelte, e la scelta economica è fra le più selezionate, considerare cronicizzato e definitivo qualsiasi ruolo e atteggiamento assunto da un individuo che sia stato valutato e giudicato secondo canoni che si vogliono considerare immutabili.

Tornare sui prorpi passi è fastidioso, penoso, tedioso, talvolta doloroso, sempre assai dispendioso.

Vale per il singolo, questo, ma naturalmente molto di più per un gruppo, per un complesso di individui.

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